domenica 23 dicembre 2007

In biblioteca ho preso Dies Irae, di Giuseppe Genna (editore Rizzoli, per la precisione). Se ne era parlato molto in rete quando usci' l'hanno scorso, lo avevo anche sfogliato brevemente all'Ipercoop. Giuseppe Genna non mi ha mai convinto completamente. Ho cominciato a sentirlo nominare per la diatriba che ebbe con Wu Ming, che forse ancora si chiamava Luther Blisset, tanti anni fa ormai. Poi fecero pace, diventarono anzi amiconi, e questa specie di conversione, adesso e' uno dei due animatori di Carmilla, non mi convinse. Poi ha sempre da dire la sua, soprattutto sulla letteratura, scrive e afferma in modo compulsivo. Un insieme respingente per me. Sul sito del libro si legge una qualche recensione che lo definisce l'Underworld italiano. Si va be': come si diceva alle elementari, cala... Pero' il romanzo parla di Vermicino, ha una copertina assai bella, e' un tomone spessissimo, conta infatti 761 pagine, e a me la protervia delle grandi dimensioni mi fa sempre un certo effetto di sfida, che avrai mai avuto da dire, unito al fascino della costanza, di non perdere il filo per mesi o anni. Insomma, girellando per la biblioteca ho deciso di prenderlo, tanto se e' insopportabile lo smetto e lo riporto.
Per fortuna. Perche' invece e' un romanzo BELLISSIMO.
Le varie vicende si snodano dall'81 di Vermicino al febbraio 2006, un mese prima che il libro uscisse, e alle storie politiche e civili dell'Italia, nelle loro commistioni terrorizzanti, si affiancano le storie personali di tre personaggi, uno dei quali e' "io, Giuseppe Genna", il loro complicato personale e il contesto storico magnificamente portati avanti. Tra i capitoli, appaiono stralci del romanzo fantascientifico monstre Dies Irae che il personaggio Giuseppe Genna continua a scrivere compulsivamente nel corso degli anni. Lo stile e' eccessivo, logorroico, a momenti addirittura fastidioso, pero' sempre legittimo, pertinente, nella sua pretesa di dire di tutto, nominare tutto, con la parte finale in cui le parole parlano e criticano loro stesse, la parola definita come raggelamento dell'energia psichica che si autodenuncia aggiungendo ulteriore senso - mentre il corpo rattrappito in ogni sua forma, dalla violenza sessuale all'iconizzazione, arriva al rilassamento nel percorso romanzesco e alla trasfigurazione nel romanzo nel romanzo. Il libro brulica di citazioni in una specie di horror vacui da fine di civilta', si puo' riconoscere di tutto, dall'alto al basso, c'e' addirittura Emanuele Trevi, moltissimo Petrolio, Pynchon. Delillo poi permea tutto, due sue citazioni aprono la prima e l'ultima sezione, anche il legame tra intelligence e letteratura che e'teorizzata in termini identici, fino all'ultima parola del romanzo, e all'ultima parola del romanzo nel romanzo, che e' l'ultima parola di Underwold, solo ripetuta, logorroicamente, tre volte. Chi scrive oggi, soprattutto se vuole tempo, luoghi, storia nel proprio scrivere, non puo' certo prescindere da Delillo. Qui, contrariamente al solito, contrariamente ad altri romanzi (penso all'intollerabile Occidente per principianti) non c'e' lo scopiazzamento irritante retto da nessuna sapienza. E' piu' il tenere presente un maestro, un partire dal piu' grande.
In questo postmoderno maturo, con la storia fatta coscienza nelle sue alterazioni, viscosita', falsi movimenti, io ho aperto il libro e non l'ho piu' messo giu' finche' non l'ho finito, risucchiata da una lettura avvincentissima. C'e' qualche caduta minima, qui e la', ma niente che tolga un grammo di valore a questo romanzo.
Fa piacere, no?

2 commenti:

Andrea Calisi ha detto...

per fortuna
anch'io l'ho letto l'anno scorso e l'ho trovato molto bello.
ciao
buon anno barbara

zambrius ha detto...

Bene, mi hai convinto. Lo leggerò.